Tra Gaza e Kiev: il grido universale per la pace
Guardare il mondo “dall’alto, come una colomba in volo”, significa assumere una prospettiva di distacco che evidenzia quanto i conflitti che ci attraversano abbiano dinamiche simili, indipendentemente dai confini geografici. Dai cieli grigi di Kiev alle notti stellate di Gaza, il dolore civile si manifesta con gli stessi volti: bambini che piangono, madri che stringono i figli, famiglie costrette a vivere tra sirene e macerie.
La domanda che emerge, quasi come un ritornello, è sempre la stessa: chi si crede lo sceriffo del pianeta? Potenze che esercitano forza militare, governi che decidono il destino di milioni di persone come fossero pedine in una partita economica o geopolitica. Le bombe continuano a cadere, ma le parole mancano: la diplomazia, che dovrebbe essere la via concreta, resta troppo spesso schiacciata dal rumore delle armi.
Il messaggio è chiaro: le armi non portano pace. I conflitti generano cicli di vendetta, odio e sofferenza, mentre il dialogo rimane l’unico strumento capace di guarire ferite collettive. Il dramma di Kiev e quello di Gaza non sono episodi separati, ma facce dello stesso dolore: lacrime e terrore che uniscono popoli diversi in un destino comune.
La pace non può essere ridotta a un’utopia. È una strada difficile, fatta di compromessi, ascolto e mediazione, ma è l’unica via per garantire un futuro sostenibile. Continuare a ignorare questo messaggio significa condannare intere generazioni a vivere nella paura.
Oggi più che mai, serve il coraggio di cambiare approccio: dalla forza alla parola, dalla moneta politica alla vita umana. Perché la pace non è un sogno ingenuo, ma la scelta più concreta e necessaria che l’umanità possa compiere.